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La figura di Francesco Cassetti, medico e patriota, è il trait d'union del gemellaggio tra le comunità di Grézieu-la-Varenne e Finale Emilia, siglato nell'aprile del 1966: nato a Finale Emilia nel 1798, fuggì in Francia e divenne sindaco della città di Grézieu-la-Varenne nel 1870 e lo rimase - eccettuata una parentesi di un paio d'anni - fino alla morte, sopraggiunta nel 1884.
Nato a Finale il 3 dicembre 1708 da Francesco Antonio e da Francesca Castellari, risulta aver frequentato la "Schola Doctrinae Christianae" presso la chiesa dei SS. Filippo e Giacomo di Finale. Suo pro-zio fu Giovanni Battista Gigli, altro musicista finalese di qualche notorietà alle dipendenze del Granduca di Toscana e poi di quello di Modena dal 1669 al 1689. Nella sua formazione musicale è probabile abbia avuto un qualche ruolo Francesco Buoni, organista presso la confraternita della Buona Morte dal 1714 al 1724. Il Tiraboschi (notizia ripresa poi anche da Baldoni) sostiene che tra i suoi primi insegnanti fosse anche Antonio Toselli, violoncellista carpigiano che dal 1724 al 1730 fu organista e maestro di musica presso l'Accademia del SS.mo Rosario, in realtà avrebbe potuto trattarsi anche del bolognese Giuseppe Toselli, organista della Buona Morte dopo Buoni. A proposito della formazione musicale di Gigli - come ricorda Luca Colombini nel suo scritto sul musicista finalese, raccolto negli atti del convegno "Accademia de' Fluttuanti" - "da non tralasciare infine la figura di maggior spicco nel panorama musicale finalese, cioè don Pietro Sivieri, prolifico compositore, organista, accademico filarmonico di Bologna col grado più alto di compositore, che ricoprì la carica di maestro di musica presso l'Accademia della Buona Morte dal 1727 al 1747.
La famiglia di Innocenzo era agiata e benestante, ebbe casa prima in via S. Anna poi in via dei Mulini, dove egli trascorse parte della sua giovinezza. Ordinato sub-diacono nel 1729, diacono nel 1730 e infine sacerdote, a Modena, nel dicembre 1731, l'anno successivo si trasferisce nella capitale del Ducato, dove ha come maestro Antonio Maria Pacchioni. Tornato a Finale come cappellano e maestro di musica nella Chiesa del SS. Rosario, viene richiamato a Modena nel 1738, alla morte del Pacchioni, prima come organista nella Chiesa del Voto e poi come successore del maestro nella Cappella musicale della Cattedrale, per diventare, infine, Maestro nella Cappella privata del Duca nel 1754. Incarico che tenne fino alla morte, sopraggiunta il 1 agosto 1772. È in questo ruolo, scrive Umberto Baldoni nel suo 'Il Maestro D. Innocenzo Gigli Musicista di Finale Emilia nel XVIII secolo', che sa farsi apprezzare "come riformatore ed esteta: perché oltre aggiungere varii altri strumenti nella Cappella di Corte, ne definì l'ordinamento, componendola: di un Direttore, dal quale riceveranno ordini tutti gli altri; di un coadiuvatore, del maestro delle funzioni di Chiesa; di un primo violino e di un primo organista, di altri tre violini secondarii, dopo quello di spalla; di un violoncello; e di un contrabbasso: di un flauto o clarino, di una tromba e di un trombone, a cui verranno poi in seguito aggiunti elementi secondari, ma sempre sulle linee direttive del Maestro Gigli. Compì la riforma scegliendo cinque alunni, che solevansi togliere dalla Congregazione di S. Filippo Neri, come cantanti, per le funzioni di Chiesa".
Fu Socio Accademico della Filarmonica di Bologna e anche di quella di Modena. "È alla sua opera – scrive ancora il Baldoni – alla quale noi dobbiamo la fondazione della 'Unione dei Musicisti e suonatori della Città di Modena' creata avanti il 1765, che, oltre al cotivare la musica, si proponeva, al pari e sulla guisa delle Confraternite religiose, di costituire un fondo per la solenne funzione annua di Santa Cecilia, oltre che per venire in suffragio delle anime dei soci. Due anni dopo fu fondata l'accademia Ducale dei 'Filarmonici di Modena', che tenne la sua prima adunanza sotto la presidenza del Gigli occupando la gioventù in trattenimenti musicali, che tutti gli anni, dopo il carnevale e durante la Quaresima, venivano dati con spettacoli e orazioni sacre".
Negli anni che vanno dal 1742 al 1746, scrisse numerose composizioni sacre, molte delle quali sono ancora oggi conservate, in partiture autografe, nell'Archivio Capitolare di Modena. Spartiti che recentemente sono stati recuperati e fatte oggetto di un importante lavoro di riscrittura. Poco meno di due anni fa queste musiche sono state riproposte in un concerto a lui dedicato, eseguito con grande successo nel Duomo di Modena.
Non c'è solo Gregorio Agnini nella storia politica finalese: un'altra figura di grande spessore che emerge dagli scaffali del passato è quella di Carlo Gallini, deputato dal 1895 per ben sei legislature (sette se si calcola anche la 18a che dopo le elezioni del 6 gennaio 1895 venne chiusa il 13 dello stesso mese), poi sottosegretario di Stato al ministero di Grazia e Giustizia e dei culti (dal 2 aprile 1911 al 19 marzo 1914) e senatore (nominato il 3 ottobre 1920).
Nel suo curriculum politico figurano anche le cariche di consigliere comunale a Roma e consigliere provinciale di Modena (dove fu per lungo tempo eletto presidente), oltre che membro della Commissione del Senato per le petizioni, Grande Ufficiale dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, Cavaliere, Commendatore e Gran Cordone dell'Ordine della Corona d'Italia.
Nato a Finale Emilia il 27 aprile 1848 da Lorenzo Gallini ed Elisabetta Paganelli, morì a Roma il 13 marzo 1927. Laureatosi in Giurisprudenza all'Università di Bologna nel 1871, frequenta assiduamente anche la facoltà di Lettere, dove ha modo di conoscere il suo docente più celebre dell'epoca, Giosuè Carducci, che resta colpito dall'ingegno vivace e dalla vasta cultura del giovane finalese.
Trasferitosi a Roma, intraprende la carriera di avvocato con ottimi risultati. Nella capitale partecipa alla vita politica, collabora a importanti riviste giuridiche, pubblica diverse opere di notevole rilievo nel campo del diritto (tra le più studiate Il commento allo Statuto fondamentale del Regno e il Massimario della Corte di Cassazione di Roma) ed è nominato consigliere dell'Ordine degli Avvocati.
È un radicale convinto ed è come esponente di quella che allora (siamo nel 1895) viene classificata "estrema sinistra" che è eletto alla Camera dei deputati con i voti degli elettori del Collegio di Pavullo nel Frignano (che resterà il "suo" Collegio anche nelle successive rielezioni). In Senato sarà tra i membri del gruppo Unione democratica sociale, poi Unione democratica (di cui fu anche segretario).
La sua attività parlamentare è ricordata soprattutto perché fu tra i primi ad affrontare due temi particolarmente spinosi: la difesa giuridica dei poveri e il voto alle donne.
Sul tema della tutela giudiziaria degli indigenti, viene ritenuta pioneristica e benemerita l'iniziativa di Gallini, che dopo aver presentato un ordine del giorno che impegnasse finalmente il governo a riformare la legge sul gratuito patrocinio, propose un primo progetto di legge, intitolato "Istituzione dell'avvocatura dei poveri", presentato alla Camera il 29 gennaio 1903. A questo proposito, riportiamo quanto scritto da Federico Alessandro Goria, docente dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro", in Avvocazia dei poveri, Avvocatura dei poveri, Gratuito patrocinio: la tutela processuale dell'indigente dall'Unità ad oggi: "Nella relazione introduttiva il Gallini precisava di aver voluto tener conto sostanzialmente di tre elementi, che il testo cercava di affrontare e correggere: l'esigenza dell'indigente di essere assistito anche nella fase istruttoria davanti alla Commissione competente, non soltanto per motivi economici (per evitare l'uso della carta bollata, richiesta dalla normativa), ma anche a causa dell'ignoranza che spesso gli avrebbe impedito, da solo, di reperire tutti i certificati e i documenti necessari ad attestare le proprie ragioni; la necessità di provvedergli un difensore preparato e che si occupasse attentamente della causa; il problema di realizzare tutto questo senza un eccessivo aggravio del bilancio dello Stato. La soluzione che proponeva era dunque quella di istituire un ufficio dell'Avvocatura dei poveri presso ogni Tribunale e Corte d'appello, utilizzando allo scopo funzionari del pubblico ministero che, oltre al proprio stipendio, avrebbero potuto anche ottenere il pagamento degli onorari dalla parte soccombente o dal proprio cliente, in caso di vittoria. Presso le Preture si sarebbe invece conservato l'affidamento della difesa ad un patrono 'officioso', a seguito di semplice decreto dello stesso Pretore. (...) Il progetto fu il classico "sasso nello stagno" e raccolse una schiera di critiche (...)". Gallini su questo argomento ripresentò poi due successive proposte di legge: una seconda il 2 febbraio 1905 (anche se il testo venne letto in aula solo il 5 maggio dell'anno successivo) e una terza il 26 febbraio 1910. Il tema del gratuito patrocinio ha poi continuato ad essere al centro di un dibattito tra giuristi che prosegue ancora ai giorni nostri.
Sull'argomento del voto alle donne, Carlo Gallini fu il firmatario dell'atto n. 358 del 18 giugno 1910, un primo provvedimento per la concessione alle donne dell'elettorato, che non arrivò a ottenerlo, ma incise significativamente sulla concessione di altri sacrosanti diritti.
Il testo della proposta legislativa è parte del libro "La donna e la legge" che Carlo Gallini pubblica sempre nel 1910 per l'editore Loescher - riprendendo i suoi precedenti studi sulla condizione sociale e giuridica della donna, editi nel 1872 (e una cui copia, con dedica autografa dell'autore, è stata rinvenuta nella biblioteca di Giuseppe Garibaldi a Caprera) - con prefazione di Jane Grey, pseudonimo di Clelia Romano Pellicano, scrittrice e giornalista, anticipatrice del femminismo italiano ed europeo, figlia del barone Giandomenico Romano e moglie del marchese Francesco Maria Pellicano dei duchi Riario-Sforza, entrambi deputati del parlamento italiano.
Non lo si può definire un finalese a tutti gli effetti, anche perché dei suoi natali si è impossessata Fiorano Modenese, che gli ha anche intitolato la biblioteca cittadina. In effetti è così: Paolo Monelli è nato a Fiorano il 15 luglio del 1891, nella casa materna di via Cerveto 5. Il suo cognome è però tipicamente finalese e, in effetti, come recita l'atto di nascita trascritto sui registri dell'anagrafe del Comune di Fiorano, il padre Ernesto, Capitano Medico, era "domiciliato in Finale Emilia", anche se ben presto con la famiglia dovette trasferirsi a Bologna, come direttore dell'Ospedale Militare. E anche Paolo, in gioventù, deve aver trascorso, soprattutto in estate, lunghi periodi nella nostra città. D'estate, perché durante il periodo scolastico frequentava il Liceo Classico Minghetti nel capoluogo.
Paolo Monelli era un personaggio davvero incredibile: scrittore, giornalista, gastronomo gaudente, grande viaggiatore, fotografo e anche Alpino. Meriterebbe davvero di essere riscoperto e, visto che un legame con la nostra città l'ha avuto, ce ne impossessiamo almeno per il tempo di questo post-it con la speranza di stuzzicare qualche lettore ad andare a ricercare in qualche vecchia libreria o in biblioteca i suoi libri.
Laureatosi in Legge a Bologna il 7 luglio del 1913 con una tesi dal titolo "Il momento consumativo del reato", fu ufficiale degli Alpini nella I Guerra Mondiale. Già nel 1914 si era accostato al giornalismo, iniziando a svolgere incarichi redazionali per Il Resto del Carlino. Dopo la I Guerra Mondiale iniziò la carriera di giornalista scrivendo soprattutto per La Stampa, il Corriere della Sera, La Gazzetta del Popolo e prese parte alla Guerra d'Etiopia e alla Seconda Guerra Mondiale come inviato. Nel secondo dopoguerra collaborò con Risorgimento Liberale, Tempo, La Stampa, Corriere della Sera, Epoca e altre testate.
Senza ombra di dubbio, anche se oggi non viene ricordato più di tanto, è stato uno dei più grandi giornalisti italiani del Novecento (alla stregua di un Indro Montanelli, per intenderci: e chi avrà la pazienza di andare a ricercare qualche suo articolo o qualche suo scritto se ne potrà facilmente rendere conto). È morto a Roma nel 1984.
Fu autore sia di romanzi (il più noto è "Le scarpe al sole"), sia di saggi storici ("Roma 1943", "Mussolini piccolo borghese") e di un vero e proprio piccolo gioiello: "Il ghiottone errante", frutto di un reportage sul campo (antesignano delle opere da gourmet-scrittore alla Mario Soldati, Gianni Brera o, più recentemente, Gianni Mura e Roberto Perrone), arricchito dei disegni di uno dei migliori illustratori dell'epoca, Giuseppe Novello, anch'egli alpino e con il quale aveva già pubblicato nel 1929 un volume di vignette e racconti canzonatori per l'editore Treves, "La guerra è bella ma scomoda" .
Anche "Il ghiottone errante" - che raccoglieva una serie di articoli pubblicati sulla Gazzetta del Popolo di Torino - venne pubblicato da Treves nel 1935: è un diario di viaggio in Italia, alla scoperta del meglio della nostra enogastronomia. Eravamo nei primi anni Trenta! Le pubblicazioni non si occupavano né di turismo, né di cucina, la fortuna di Slow food con i suoi presidi non era nemmeno ipotizzabile e la Tv era di là da venire con tutti i suoi show culinari che oggi riempiono i palinsesti.
Un piccolo capolavoro d'ironia e leggerezza nel quale viene affermato il valore culturale del cibo e del vino, molto prima che il buon mangiare e il buon bere diventino di moda.
Tanto per farmi capire, ve ne trascrivo un piccolo passaggio: "Ho letto libri sacri e profani, ho cercato in mille volumi certezze e consolazioni, ma nessun libro vale questo volume di lasagne verdi che ci mettono innanzi i salaci osti bolognesi. Fra pagina e pagina e un vischio di formaggio, un occhieggiare di tartufi, un brulicare di rigaglie preziose. Sfogliate, divorate pagine: è un decameroncino, un manuale di filosofia storica, una consonante poesia che ci fa contenti di vivere".
È probabilmente la prima volta in cui la lasagna viene sdoganata e offerta in pasto (letterario) al grande pubblico: all'epoca non era ancora piatto da ristorante, ma piuttosto da piccola osteria di passaggio.
"Il ghiottone errante" è un libro che, nell'anno dell'Expo, mi auguravo qualche editore ristampasse nella sua versione originaria, con le vignette di Novello. Così come avrebbe dovuto essere per una sua altra pubblicazione, edita nel 1963 da Longanesi: "O.P. ossia Il vero bevitore", un vademecum per imparare a bere, dove O.P. è un artificio letterario, un acronimo, che sta sia per Optimus Potor – latino che identifica chi beve bene – sia per Oino-Pòtes – termine greco con cui Anacreonte identifica il savio cultore del vino.
Il 1963, anno di uscita di quest'ultimo libro, è anche quello del secondo matrimonio per Monelli: dopo la separazione dalla prima moglie avvenuta a San Marino nel 1954 e resa esecutiva dalla Corte di Appello di Roma nel 1958, convola a nozze con Palma Bucarelli, gran dama romana, critica d'arte e storica dell'arte, direttrice e sovrintendente della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma dal 1942 al 1975.
Monelli, ultimo intellettuale ad abbandonare il monocolo, è stato un ottimo giornalista a tutto campo, una "grande penna", come emerge in ogni cosa che ha scritto: dai suoi racconti della guerra alpina alle corrispondenze da Berlino, Atene e Parigi, dai resoconti di importanti imprese del regime (la trasvolata oceanica di Italo Balbo in occasione del decennale fascista e la conquista dell'Impero d'Africa Orientale), dalle risposte nelle rubriche delle lettere che nel dopoguerra ha curato in diversi quotidiani agli articoli di costume. Il suo ultimo articolo è per il Corriere della Sera nel 1978.
Nel 1982, già colpito da una malattia invalidante, decide di donare la sua biblioteca, l'archivio personale, le raccolte dei giornali e delle riviste a cui aveva collaborato alla biblioteca statale "Antonio Baldini" di Roma: si tratta di circa 11 mila volumi, 347 scatole di documenti dell'archivio personale (che copre l'arco cronologico dal 1868 al 1967, comprendendo anche documenti riguardanti i genitori) e circa 6000 stampe fotografiche in B/N di vari formati, nonché matrici di stampa su plastica e su vetro.
PS: Credo sia doveroso, a chiusura di questo breve racconto, un ringraziamento al maestro Angelo Sola. Il legame di Paolo Monelli con Finale mi sarebbe rimasto sconosciuto se non avessi rinvenuto un articolo del settimanale "Panorama" del novembre 1973, in un faldone conservato nella Biblioteca Comunale che contiene ritagli di articoli su Finale (dal 1884 al 1989), tratti da quotidiani e periodici, che egli ha raccolto, negli anni, con tanta passione e cura.
"La singolarità di questa vita sentimentale e sessuale si può comprendere, in connessione con la duplice natura di Leonardo, artista e ricercatore, soltanto in un modo. Tra i biografi, che spesso sono restii ad adottare punti di vista psicologici, soltanto uno, Edmondo Solmi, si è accostato per quel che so alla soluzione dell'enigma (...)".
Queste parole scritte dal fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud rappresentano una sorta di (meritata) medaglia per lo storico e studioso finalese - particolarmente apprezzato ancora oggi dai più importanti conoscitorI di Leonardo da Vinci - che, vuoi per la sua repentina scomparsa (è morto ad appena 38 anni), vuoi forse per il ruolo avuto dal fratello Arrigo durante il periodo fascista (fu ministro guardasigilli dal 1935 al 1939 e membro del Gran Consiglio), è stato troppo rapidamente dimenticato dai suoi concittadini.
Edmondo Solmi nacque a Finale Emilia (Modena) il 15 novembre 1874 e morì il 29 luglio del 1912, a soli 38 anni di età, a Spilamberto. Il padre era segretario del Comune di Finale e la famiglia abitava in via Borgonuovo, ora via Saffi.
Solmi si diplomò al Liceo Classico Muratori di Modena e proseguì gli studi all'Istituto di Studi Superiori di Firenze. Si laureò in lettere e filosofia con una tesi su Leonardo da Vinci. Dopo avere insegnato nei ginnasi, poi nei licei di varie città italiane, fu prima libero docente, poi incaricato di storia e filosofia presso l'Università di Torino. Ottenne infine la cattedra della medesima materia all'Università di Pavia (1910).
Fattosi precocemente notare per la vivacità dell'ingegno, nella sua pur breve esistenza, ebbe la fortuna di incontrarsi con alcuni degli uomini più notevoli del suo tempo, a cominciare dal poeta Severino Ferrari, che gli fu maestro al Liceo di Modena. Già negli anni della formazione fiorentina aveva conosciuto D'Annunzio e frequentava gli ambienti del 'Leonardo' e della 'Voce'. Ebbe inizio in quegli anni l'amicizia di uomini come Giovanni Gentile, Giovanni Amendola e Gaetano Salvemini. Ma in particolare si legò di stretta amicizia con Cesare Battisti, a quel tempo non ancora deputato socialista di Trento, bensì suo condiscepolo all'Istituto di Studi Superiori di Firenze.
La fama di Edmondo Solmi, sia pure circoscritta al mondo dell'alta cultura, si affermò rapidamente. Oltre che nel campo degli studi su Leonardo, egli tracciò un'orma in altri rami del sapere storico-filosofico, soprattutto coi suoi studi su Campanella, Spinoza, Gioberti, Mazzini eccetera. Attraverso la sua biografia si può cogliere un certo modo di studiare e di impegnarsi nel lavoro, tipico nell'Italia degli anni successivi all'Unità e antecedenti la prima guerra mondiale. Un'epoca che vede una nuova organizzazione degli studi, l'inserimento di nuovi docenti nelle Università (un esempio fra i tanti: Giosuè Carducci venticinquenne all'Università di Bologna), la presenza e la vivacità di molte case editrici con le loro pubblicazioni. Un clima questo che traspare anche osservando l'infaticabile attività di Edmondo Solmi, lavoratore della cultura, conferenziere, organizzatore di eventi, ricercatore, insegnante e pubblicista.
Dopo la sua morte, il fratello maggiore Arrigo - che oltre che uomo politico fu un noto storico e giurista - raccolse parte degli scritti inediti e sparsi e ne pubblicò quelli rimasti interrotti. Nei Ricordi familiari del figlio Sergio, il celebre letterato, poeta e critico (1899-1981), invece si legge una straordinaria storia di studi, di impegni di vita e di lavoro: "Col babbo si stava più tempo assieme nei mesi d'estate, che passavamo a Santa Liberata (nei pressi di Vignola). Mio padre arrivava accompagnato da bauli pieni di libri e di schede, e noi si andava con la carrozza a prenderlo alla stazione. In realtà, la villa dei miei nonni era una grande casa rustica con moltissime stanze e stanzette, sormontata da tre altane...A Santa Liberata si viveva come da duemila anni addietro, come da sempre. A casa c'era il pozzo, c'era il forno dove ogni settimana si cuoceva il pane, il duro e bianchissimo pane emiliano a cornetti...Facevamo le nostre passeggiate, talvolta sulle colline prossime. Ma più spesso lungo uno 'stradello' ..che poi si faceva a poco a poco polveroso di una caratteristica terra rossastra. Di là si giungeva a Vignola, cittadina originaria dei Solmi, ai cui margini l'altra mia nonna, la madre di mio padre, coi suoi numerosi figlioli e figliole, possedevano una villetta con giardino".
Articolo scritto con la collaborazione di Galileo Dallolio